12. INGORDO DI IMMAGINI
Canuti ha camminato tanto, con i piedi, con gli occhi e con l’anima. I paesaggi li ha immagazzinati in modo ingordo non solo in testa, ma nello stomaco, nella pancia. Ricorda perfettamente le luci, l’atmosfera, la temperatura di un luogo che lo ha colpito.
Per questo poteva permettersi di dipingere un paesaggio anche in bottega, appoggiato sul lavandino, per questa sua capacità di evocare. Non è solo una questione di memoria, ma di temperamento, di sensibilità. Di saper interiorizzare la bellezza e la potenza della natura, che per tanti sono solo uno sfondo colorato, verso il quale non provano alcun viscerale incanto ne’ rispetto, quasi fosse un allestimento teatrale per la commedia della vita, e non parte della commedia stessa.
Le sue dita avevano una vita propria, erano dotate di consapevolezza e abilità meravigliose: ogni movimento era disciplinato, come per le dita dei musicisti.
(Sandor Marai, La sorella)
Non andò a casa, ma prese una strada che usciva dalla città. Non vedeva nulla intorno a sé, non sapeva se fosse autunno o inverno, se stesse camminando sulla riva del mare o lungo una fabbrica; del resto era molto tempo che non viveva più nel mondo; il suo unico mondo era la sua anima.
(Milan Kundera, L’immortalità)
Mercato a Reggio Emilia
Un mercato in movimento, pieno di voci.
Caro Ermanno,
La nostra piccola città è il posto al quale appartenevi, ma forse eri stato rinchiuso per errore in una gabbia sbagliata, angusta. Se tu fossi vissuto a Roma, a Firenze, a Parigi, mi chiedo quale sarebbe stata la tua vita artistica. Forse te lo chiedevi anche tu, ogni tanto. Ma solo ogni tanto, senza rimpianti o frustrazioni. La tua vita ti piaceva, ti nutrivi della tua arte, dei tuoi entusiasmi, facevi quello che ti amavi: dipingere, riflettere, studiare. Come artista ti si prospettava davanti un mondo molto più grande, ma tu hai preferito quello che ti eri scelto, più piccolo, dove la tua arte poteva coniugarsi con i tuoi impegni di uomo: gli affetti, la famiglia, i grandi amici artisti e non solo. La tua bottega era il tuo rifugio, la tua tana privata, ma nello stesso tempo il tramite per comunicare con un mondo che non dovevi andare a cercare, ma che veniva da te. Era il tuo posto, dove potevi scegliere: dentro solo chi volevi tu e fuori tutto il resto. I tuoi quadri sono finiti in giro per il mondo, senza che tu ti sia spostato dalla tua poltrona. La tua arte faceva parte di un mondo tuo, credo che fosse una tua necessità interiore più che un modo per esibirti, ovvio che le gratificazioni ti inorgoglivano, senza però l’ambizione di lanciarti ad un livello più alto, smania che spesso rode artisti molto meno valenti di te. Percepivi sicuramente il tuo valore, ma non ti ho mai sentito progettare per te stesso grandi eventi, mostre d’arte, che invece hai spesso curato per altri grandi artisti reggiani che ammiravi. Gli eventi importanti di cui sei stato protagonista erano più che altro su invito e organizzazione di altri. Forse, nonostante la tua esuberanza, era solo una questione di intimo riserbo, perché hai passato la tua vita di artista sempre in lotta con i limiti da scavalcare, per arrivare al livello artistico sognato, e quella distanza ti sembrava di non colmarla mai. Mi viene in mente quel passaggio bellissimo in cui Novecento, il protagonista del film “La leggenda del pianista sull’oceano” cerca di spiegare perché non scende dalla nave su cui è nato ed è sempre vissuto: perché il mondo è troppo grande: