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4. IN CUCINA

                                        

 

Per diventare bravi cuochi, non basta studiare ricettari, ci vuole talento.

Non per nulla si dice Arte Culinaria. Ma le opere sono così effimere, mentre ti appagano si consumano, nel vero senso della parola. Questo è indubbiamente un aspetto affascinante, che Ermanno coglieva in pieno.

Amava veder cucinare, forse perché una cuoca appassionata, tra coltelli e cucchiai, assomiglia ad un pittore con i pennelli: determina le forme, accosta i colori, compone i piatti, guida il gusto dei commensali.

Così, godeva dei profumi che aleggiano in cucina, dei colori festosi delle verdure sul tagliere, delle sinfonie dei sapori. Odorava una spezia, socchiudeva gli occhi e diceva: che meraviglia! Da buon reggiano, la sua preferenza andava ai nostri cibi tradizionali, ma si faceva sempre incantare dalla cucina anarchica, ad occhio, creata col cuore, perché istintivamente ammirava tutte le forme di creatività, di abilità e di talento, in qualsiasi direzione. Forse aveva intuito che la cucina, come la pittura, è molto simile alla magia, trasforma la materia. E’ una forma di arte che prima o poi lo doveva attirare, la sua curiosità non gli dava respiro. Da qui a fargli apprezzare certi sapori troppo azzardati (che so: zenzero, curcuma, curry…), c’era un po’ di differenza… a volte, pur rapito dall’impatto multisensoriale di un piatto: colori, aroma, estetica… si arenava poi all’assaggio, dava un colpetto al piatto e lo spingeva in avanti, con un’espressione arricciata molto eloquente. Nei casi più estremi, c’era sempre in frigorifero qualche fetta di salame a salvare la situazione. Caro, tenero Ermanno.

Eppure, negli anni della gioventù, non ha mai dato troppa importanza all’alimentazione. Raccontava che gli bastavano un piatto di spaghetti al pomodoro (annegati nel pomodoro, ma questo poi lo lasciava nel piatto), un pezzo di emmenthal, tanta frutta e via. Aveva troppe cose da fare, da studiare, da pensare. Buttava dentro e scappava verso il suo mondo invisibile: mangiare serviva a sopravvivere e a fornire energia, non a perdere tempo. La convivialità però, più tardi, aveva incominciato ad apprezzarla, stavamo a tavola interi pomeriggi. L’appagamento dei sensi, unito ad una buona ed eterogenea compagnia, stimola e rasserena. Il pranzo era solo un pretesto per stare insieme, un’occasione di scambio, di dialogo. Una medicina naturale incomparabile.

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Caro Ermanno,

quante ore passate a tavola a discutere e ad ascoltare i tuoi racconti!Avevi tante stanze dentro di te e le visitavi, a volte con noi, risalendo negli anni come un pesce risale un fiume. Ritrovavi scene familiari, odori che scavavi nella memoria. Con il tuo modo di raccontare vivido, ci portavi con te. Ci raccontavi episodi anche drammatici, come la guerra, vissuti con i tuoi occhi di bambino, ricordando perfettamente quegli stati di animo. La miseria che c’era. Per rappresentare la miseria a noi che non sappiamo cosa sia, evocavi immagini quasi vive: torme di figli vestiti di stracci, nelle case fredde riscaldate dalla legna che i bambini rubavano qua e là, le madri che non sapevano quale minestra inventarsi da mettere in tavola. Le bombe, i rifugi, voi bambini che non avevate nemmeno più paura e a volte restavate in strada in mezzo ai mitragliamenti. La morte che, così piccoli, vedevate già in faccia. Una volta, passando in via Toschi, mi hai indicato sulla strada l’inferriata di un seminterrato. Lì, mi hai detto, in tempo di guerra c’era un rifugio. Una notte che c’era un bombardamento vi eravate stipati lì dentro. Al cessato allarme, mentre uscivi dal finestrino, l’inferriata ti è caduta in testa e ti ha fatto un gran taglio. Il sangue usciva a fiotti, ma tu  già non avevi paura di nulla. Ti hanno fasciato con una pezza bianca e ti hanno mandato a casa. Ricordavi ancora la faccia allibita di tua madre, quando ti ha visto sulla porta con quella specie di turbante e la maglietta tutti zuppi di sangue. A quel tempo eri ancora giovane e non avevi paura della morte, era impensabile. Questa coscienza la si prende camminando negli anni, infine sovrastati dalla stanchezza e dalle perdite. Se potessi ti leggerei un passaggio del libro IQ84 di Murakami Haruki (lo sai che adoro gli scrittori giapponesi). Dice così: “…superata una certa età, la vita diventa un processo di perdita ininterrotto. Tutte le cose che contano scivoleranno via dalle sue mani una dopo l’altra, come denti di un pettine che un po’ alla volta si spezzano e ciò che riceverà in cambio saranno solo cose di scarso valore. La forza fisica, le speranze, i sogni, gli ideali, le convinzioni, i valori, non resterà più nulla, anche le persone amate si allontaneranno da lei, sparendo una dopo l’altra. Se ne andranno dopo averle detto addio, oppure un bel giorno scompariranno all’improvviso, senza un saluto. E una volta perdute, non potrà fare più niente per recuperarle.” 

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Canuti posa per il fotografo

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