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Riccardo Zanichelli è amico di mia nipote Margherita, frequenta la nostra famiglia e così, ancora ragazzino, ha conosciuto Ermanno. Ci regala questo ricordo, dove lo tratteggia con vivacità e simpatia.

Fabrizia Sarti

Ermanno

Riccardo Zanichelli

Ho conosciuto Margherita prima come compagna di liceo, poi come amica e compagna di banco. E così, credo, che sono stato presentato a Ermanno la prima volta, come amico e compagno di banco di Margherita. Credo anche di ricordare il giorno. Era in occasione del diciassettesimo compleanno della Margi, e i suoi parenti ci avevamo portato, me e altri amici di allora, da qualche parte in montagna, dove c’era una cascata e molta poca gente, quasi nessuno, credo. Ricordo che stranamente il posto mi era piaciuto, e che l’acqua era freddissima. A un certo punto avevamo mangiato la torta, buonissima, e avevo portato dello champagne. Lo champagne, questo lo ricordo bene, lo aveva aperto Ermanno. È il primo ricordo che ho di lui. Un uomo che mi sembrava vecchissimo e vivissimo, che portava mocassini, pantaloni cachi abbastanza ampi e una polo a righe blu scolorate, che sedeva a gambe accavallate su una sdraio decisamente troppo bassa. Ricordo lui che si alzava, sempre con gli occhiali da sole a goccia indosso, e diceva qualcosa come «E questa chi l’ha portata? Ah, splendido». Poi si rimise sulla sdraio a dormire e a fumare, circondato dalle piante alte, che accarezzava con una mano, mentre faceva dondolare l’altra che teneva la sigaretta. Fumava Winston Blue, quelle sottili. Chiamava la Margi bimba. «Margi, ma lui è tuo nonno?». «No, cioè, è Ermanno».

Il momento in cui io ed Ermanno abbiamo cominciato a parlare proprio non lo ricordo, ma ho la forte sensazione che sia stato lui a iniziare la prima delle nostre conversazioni. Sicuramente mi aveva parlato del suo peregrinare da giovane, dopo essere uscito di casa, di fretta. Non cercava una corte che lo mantenesse nè una madre surrogata; voleva lavorare, essere indipendente. Ha lavorato tanto, e non ha sentito la mancanza di nessuna casa se non di quella che avrebbe poi costruito lui stesso, quella per le sue figlie. Non parlava molto di casa perché, almeno penso, lo faceva pensare a tutti quei minorati che non si sono mai staccati dal grembo, dalla parrocchia. Ma non ce l’aveva troppo con me quando gli dicevo che d’estate sarei andato al mare con la nonna. Mi sfotteva, sbuffando e ridendo. «E quindi le vacanze chi te le paga?». «Ah, tua madre». «E con chi vai, con tua madre?». «Ma non è ora che ti prendi su e la molli tua madre?». Era serissimo quando parlavamo di letteratura, di film, di musica, ed io, sia perché giovane, sia perché spiritualmente talebano, davo addosso a chiunque sostenesse un’estetica, una morale che io non condividevo. Ed Ermanno amava questa sfrontatezza, perché era passionale molto più di me, ed ammirava senza riserve lo studio che coltivavo con tanto scrupolo ed esuberanza. «E dagliela una pennellata di cultura a questi qua». Poi giocavamo a carte, e quando era il mio turno di mescolare il mazzo, e ovviamente lo facevo male, tornava a sospirare, e sospirava ogni volta. «Ma cos’è che sai fare, tu?». «E pensare che la gente ti vede in giro con la Margi...».

Per otto anni l’ho ritrovato alla casa di Banzolo, dove andava per dipingere e stare con la sua famiglia adottiva. Si è sempre mosso per quegli ambienti con garbo felino, direi, concedendosi solo quelle libertà che erano concesse agli anziani cresciuti in regimi patriarcali: quando aveva finito il piatto di pasta, lo metteva di getto a lato del tavolo, in attesa che lo prelevassero. È un lavoro per le donne di casa, dopotutto. Si è sempre comportato come un ospite, il più consueto degli ospiti, ma pur sempre un ospite. Gli si dava del lei, anche dopo quasi trent’anni di pranzi condivisi. Non era cortese, ma era fierissimo, alla mano, dolcemente invadente, lievemente moralista. Di fronte ai suoi quadri e alla vita semplice, elegante, coloratissima che rappresentavano, un uomo dall’intelligenza vivace, di raffinata e partigiana cultura, a cui bastava pochissimo per stare bene, con se stesso e con gli altri.

Ermanno Riccardo Zanichelli

Vedendomi ancora a Banzolo direbbe: «Ancora qui stai?». Ancora, con i suoi occhiali da sole a goccia, la camicia di fuori, i pantaloni cachi, lo rivedo che scuote la testa, non inquisivo, ma dispiaciuto perché ancora non sono riuscito a combinare molto. «Nemmeno un figlio hai fatto». Forse nemmeno mi concederebbe di essere gradito e discreto. Non gli dico niente, perché sa già quel che gli direi. «Ci sto provando». E lui scuote ancora la testa. «Tua madre ti ha voluto troppo bene».

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